Faccio un copia/incolla dell'editoriale del direttore di Quattroruote, Gian Luca Pellegrini, estratto dal numero di maggio.
Nel caso dovessi violare qualche restrizione sul copyright cancellate pure questo messaggio.
Però ci sono molti spunti su cui riflettere, soprattutto sulla frase di chiusura..... |
L'EUROPA PIANGE SUL LATTE VERSATO |
Mentre in Italia osserviamo basiti la querelle che ha indotto l'Alfa Romeo a cambiare in Junior il nome della Milano appena cinque giorni dopo la presentazione urbi e orbi (il ministro Urso aveva eccepito che una macchina prodotta in Polonia non può, secondo le norme solitamente applicate ai formaggi nostrani, chiamarsi così: ed è stato accontentato, aggiungendo un surreale capitolo alla polemica al calor bianco fra governo e Stellantis), nel resto del mondo il caos – e mi riferisco soltanto all’automotive e alla sua transizione sempre più accidentata, ché sul resto è meglio sorvolare – sta prendendo il sopravvento. I porti del Nord Europa si stanno trasformando in parcheggi, perché i costruttori cinesi stanno lasciando le automobili nei terminal. Il motivo all'apparenza è semplice: BYD, Great Wall, Chery e Saic – ovvero le Case più aggressive nei confronti del mercato europeo – accelerano le esportazioni perché vogliono anticipare eventuali dazi europei (che alcuni Paesi vorrebbero, come la Francia, e altri no, come la Germania, per paura di sempre possibili ritorsioni). Quindi "spingono metallo", come si dice in gergo, verso il Vecchio Continente, pur consapevoli che le immatricolazioni di elettriche stanno calando un po' ovunque (in Germania, tolti gl’incentivi, il segmento è crollato del 30% rispetto all’anno scorso) e che le reti di distribuzione nei vari mercati non sono ancora pronte. Da qui la congestione che sta mettendo in crisi un settore già da tempo in difficoltà come la logistica: a Bremerhaven, il gestore del secondo terminal automobilistico europeo per volumi movimentati, la Blg Logistics, dice chiaramente che fino a quando i tedeschi non rimetteranno in funzione gli aiuti di Stato (ma pare improbabile) la situazione non cambierà; e la norvegese United European Car Carriers ha definito «molto frustranti» i ritardi subiti a Livorno e al Pireo. Questa la ragione contingente. Ma dietro il maxi ingorgo di macchine senza ancora un padrone si nasconde un problema ben più complesso: ovvero la sovracapacità produttiva dell’economia cinese. |
Negli ultimi anni, il governo di Pechino ha alimentato una crescita forsennata del proprio comparto automotive per rendere le Case domestiche competitive sul palcoscenico internazionale. Secondo uno studio del Kiel Institute, la sola BYD avrebbe ricevuto almeno 3,4 miliardi di euro sotto forma di denaro, accesso preferenziale a materie prime critiche, trasferimenti forzati di tecnologia da parte d'investitori stranieri e un trattamento favorevole negli appalti pubblici e nelle procedure amministrative (e poi c’è il beneficio indiretto degli aiuti a chi costruisce le batterie delle sue vetture e quello, valido per tutti, degli sconti a carico della collettività sulle Bev). La capacità installata è enorme, e ora pletorica rispetto alla domanda in calo del mercato interno. Il governo centrale lo sa e cerca di modulare in modo dirigistico le operazioni industriali, con risultati però lontani dall’essere ottimali. Il fatto stesso che la Caam (l’associazione dei costruttori cinesi) citi come un successo da celebrare l’aver raggiunto – e si parla del 2023 – una produttività del 70%, che per gli standard occidentali è il minimo sindacale, la dice lunga su come stia andando la vicenda e spiega perché i cinesi trovino più semplice rovesciare sui nostri lidi l'invenduto (che, come abbiamo visto, rimane tale anche qui, ma per loro sono dettagli). L'Europa inizia a rendersi conto che l'aver spalancato un'autostrada alle smanie espansionistiche di Xi Jinping con un Green Deal completamente inconsapevole delle sue implicazioni si sta rivelando un suicidio. Ed è partito il riposizionamento dei politici di punta in vista delle imminenti elezioni. Thierry Breton, commissario al Mercato interno e all'Industria, ha ammesso che il percorso verso la mobilità a zero emissioni (ndr: allo scarico) da lui stesso sostenuto è in pesante ritardo e che il «Green Deal non sarà raggiunto con la bacchetta magica o con un ordine esecutivo di Bruxelles. Tutte le condizioni abilitanti devono essere soddisfatte». Per meglio spiegare il concetto, ha approntato un documento che riassume i cinque motivi per cui l'Europa non è pronta a fare il grande passo verso l'elettrico. Il ritmo d'adozione è lento («le vendite di nuovi veicoli elettrici dovranno crescere di sette volte entro il 2035 per soddisfare la domanda prevista»); le automobili rimangono troppo care («alla data del 1° gennaio 2024 non risultano vetture con un prezzo medio inferiore ai 20 mila euro»); l'infrastruttura di ricarica è concentrata in pochi Stati e funziona male; si stanno perdendo troppi posti di lavoro; e le annunciate gigafactory di batterie ancora non si vedono, «alimentando gravi dipendenze». |
Thierry Breton, commissario al Mercato interno e all'Industria |
Nota conclusiva: «La Cina sta prendendo il sopravvento: se un’auto elettrica su cinque venduta in Europa è prodotta in Cina siamo di fronte a un fenomeno preoccupante». A me sembra preoccupante che si debba arrivare alla deindustrializzazione dell’economia europea per rendersi conto di qualcosa che era palese per chiunque non fosse accecato dall’ideologia o dall’interesse (o da entrambi). I costruttori ormai marciano in ordine sparso assecondando le rispettive priorità, indebolendo il fronte di difesa, e hanno capito che la politica vuole mettere mano all’impianto del Fit for 55, cosa che per molti sarebbe un guaio. Paradosso ancora più sublime, mentre Bruxelles cerca contromisure per arginare l’aggressività di Pechino, i governi europei fanno a gara per attirarne gl’investimenti e così difendere l’occupazione nazionale. Nei libri che si studieranno fra 50 anni questa sarà ricordata come la rivoluzione più approssimativa della storia economica. |
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